Premessa
Ognuno è figlio di qualcosa, oltre che di qualcuno. Ho sempre cercato di “generalizzare” qualcosa di estremamente personale, ma non è giusto. Quando scrivo per me parlo di me, non di una miriade di altre anime a me lontane e sconosciute.
Lettura
Sono figlio di quell’infinito deserto di parole che non sono mai riuscito a pronunciare, scrivere, elaborare; le stesse parole che, in un preciso momento, rappresentavano il valore, ma che, lontane da quei momenti, da quei contesti, da quegli stati d’animo, sono eunuchi senza voce.
Sono figlio di quei racconti che mi hanno rigato il viso.
Sono figlio di tutte volte nelle quali non mi sono sentito all’altezza di qualcosa e ancor più figlio delle volte in cui hanno fatto di tutto per non considerarmi tale perché “troppo brutto”, “troppo stupido” e “troppo poco furbo” per essere degno di qualcosa o qualcuno.
Sono figlio della paura di un rifiuto, che ho trasformato troppe volte in certezza, decidendo di sabotarmi con la debolezza di chi decide di non provarci.
Sono figlio di tutti quei consigli sentiti, e mai ascoltati, per quella convinzione che, in fondo, ero troppo intelligente per prendere decisioni sbagliate.
Sono figlio di quei “no” che mi hanno regalato un bagaglio di incertezze, che neanche mille sì sarebbero capaci di disfare.
Sono figlio delle delusioni, che mi hanno fatto volare sempre così basso da essere sempre troppo vicino al sole con le mie ali di cera.
Sono figlio dei ricordi da cui avrei dovuto imparare qualcosa, ma che, puntualmente, hanno generato solo buoni spunti per altri.
Sono figlio di quelle canzoni pregne di speranza, amore e libertà; di parole nuove e sensazioni lontane; di immagini che riesco a toccare; di tristezza e fini non liete.
Sono figlio di quei chili che mi porto addosso da quando ho memoria e dei fratellini indesiderati che si sono aggiunti man mano. Macigni che non sono mai riuscito ad accettare e che troppe volte non sono riuscito ad affrontare.
Sono figlio di tutti i desideri irrealizzati e di tutte quelle volte in cui mi sono dovuto accontentare.
E, infine, sono figlio di mio padre e di mia madre, che, nonostante mi sia messo d’impegno per regalargli delusioni in sequenza, sono sempre stati lì: con l’ombrello quando pioveva, con il fuoco di un camino quando faceva freddo e con il broncio di chi avrebbe voluto riuscissi a camminare prima con le mie gambe.
E alla fine arrivo io, che ammetto di essermi sentito un po’ il figlio di questo post. Considerando che devo il mio nickname ad un altro tuo post, direi che è una sensazione plausibile 🙂